72. L'unica speranza

72. L'unica speranza (2 novembre 1957) 

 Ieri sera abbiamo domandato perdono al Signore per non aver saputo preparare bene i nostri cari per la vita: ci siamo preoccupati di tante cose, ma ci siamo dimenticati della cosa più necessaria. Lo ha detto il Signore a una donna che aveva di questi affanni e che fino a un certo punto possono essere anche lodevoli: «Marta, tu ti affanni per troppe cose: una sola è necessaria».23 Io credo che nessuno di noi, ieri sera, abbia potuto sottrarsi a un senso di pena e di rimorso per quello che non abbiamo saputo dare ai nostri morti, in ordine alla vita eterna. Questa vita, anche quando è lunga, è sempre così breve! Quello che conta non è lo star bene quaggiù, ma è il vivere quaggiù in modo da non pregiudicare la vita eterna. Questa sera vorrei dirvi una parola ancor più vicina alla nostra responsabilità verso la vita eterna, come, cioè, dobbiamo disporre il nostro cuore e il cuore delle persone a cui vogliamo bene all'incontro con la morte. Quando non siamo riusciti ad aiutare i nostri cari a ben vivere, possiamo almeno riparare aiutando a ben morire. Sono parole che non si dicono volentieri: non si vorrebbe mai che venisse, per chi amiamo, la giornata della morte. Ci lamentiamo qualche volta del mistero che avvolge la morte, ma chi di noi avrebbe il coraggio di avere davanti agli occhi e al cuore l'ora della morte di una persona cara? Non rifiutiamo forse il giudizio dei medici anche quando questo giudizio è inesorabilmente certo? È il nostro cuore che si rifiuta di vedere morire una persona cara. Eppure, vedete, siamo tutti dei morituri e nessuno di noi sa se quest'ora è lontana o vicina. Fra tutte le morti, però, quelle improvvise sono le più brutte. Non augura-tevela e non auguratela a nessuno cui volete bene. Vediamo, sì, soffrire i nostri cari, ma abbiamo almeno la possibilità di ascoltare una parola, di raccogliere uno sguardo di cui abbiamo bisogno per alimentare la nostra povera vita. Le ultime parole dei nostri cari rappresentano una grande forza e un grande viatico per tutti, anche per coloro che, per camminare più spediti, credono di poterle dimenticare. La malattia è una cosa dolorosissima e la si vorrebbe qualche volta vedere abbreviata, perché le sofferenze dei nostri cari fanno san- 
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23* Cf. Le 10,41-42.
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guinare il cuore. Ma, d'altra parte, essa è come una specie di introduzione alla vita eterna: è un po' come il portarli, come l'avvicinarli all'eternità. Chi non ha visto morire qualcuno di casa sua, chi, in questa sera dei morti, non ha portato nella nostra chiesa l'immagine, il gemito, le ultime parole di una cara creatura? L'abbiamo vista scendere verso il tramonto, incapaci di impedire la morte. Questa è la nostra impotenza, miei cari fratelli: non sappiamo fermare la morte delle persone più care. La vediamo venire avanti la morte e non sappiamo impedirla, non possiamo chiudere la porta, siamo impotenti. Non sappiamo neanche cosa dire, sono così povere certe consolazioni! Non avete mai misurato, vicino al letto di un morente, la vanità di certe espressioni? Come suonano vuote certe parole di speranza, certe parole di inganno! L'ammalato guarda e non ci crede, scruta il nostro volto e non si illude. Egli ha il senso della morte ed è più vicino alla verità. Gli ammalati non si possono ingannare. Qualcuno ha paura di nominare Dio in certi momenti, crede di turbare la tranquillità del trapasso e chiude, invece, la porta alla speranza, al conforto, alla consolazione. Non ce n'è altra nel cuore dei nostri morenti: l'unica speranza e l'unica consolazione viene dalla religione, dalla nostra religione. L'unica speranza è nel Cristo che perdona, che diventa viatico, che sorregge la nostra debolezza nel viaggio verso l'eternità. Se voi avete scoperto un'altra maniera di consolare chi muore, di far sperare chi muore, ditemelo. L'unica maniera che avete scoperto è quella di illuderlo, di fargli credere che non morrà: e ha già la morte nel tremito della mano e voi vedete nei suoi occhi il segnale vicino! Ingannare i morenti! «Ma noi - dite - lo facciamo per pietà». Ricordatevi, o miei cari fratelli, che ci sono delle pietà criminali. Peso la parola nel dirvelo e la confermo. I morenti non sopportano l'inganno. E, poi, credete voi, o miei cari fratelli, che la presenza di un sacerdote possa turbare la tranquillità di un trapasso? Siete voi che lo immaginate, sono quei falsi familiari che chiudono le porte alla speranza, la chiudete a un povero uomo, togliendogli l'unica maniera di guardare la morte senza averne il terrore, l'unica consolazione che apre le anime alla confidenza nella misericordia di Dio. Ci sono delle morti che veramente danno il senso della raccolta intorno al letto: pregavano tutti e c'erano dei figlioli che avevano trovato una parola, che neanche il sacerdote era riuscito a trovare. Ho visto delle mamme discoprire la porta dell'eterno al proprio figliolo, il quale, fissando in volto la mamma, capiva che cosa vuol dire una morte di fede: c'è qualcuno di là, c'è un'altra mamma di là, c'è un altro papà di là, c'è qualcuno che gli vuole bene. Noi rimaniamo di qua con le nostre menzogne, il morto va al cimitero; e noi torniamo ai nostri affari, alle nostre distrazioni e i morti rimangono là, distaccati, perché, quando non c'è un raccordo con la vita eterna, quando non c'è questo legame, non vale la pena che noi ricordiamo i nostri morti. Mi sono domandato spesso: «Se uno non crede, perché va al cimitero? Che cosa va a vedere, che cosa va a trovare, cosa dice a questi poveri morti?». Ditemelo voi. Ma non sentite che in questo momento, nella nostra chiesa, i nostri morti, che ci sono così vicini, sono diventati anche la ragione della nostra consolazione e della nostra speranza? Qualche volta, negli annunci, si dice parlando di un figliolo: «È andato a trovare la sua mamma». E parlando di uno sposo: «È andato a trovare la sua sposa»; e parlando di una mamma: «Ha raggiunto di là il figliolo morto in Russia o in Africa». Vedete quale serenità e quale certezza di speranza e di vita dà la religione! Vi dico questo perché qualche volta ho l'impressione che ci sia una barriera di falsa pietà, di poco rispetto all'eterno, che c'è in ognuna delle anime che stanno preparandosi al trapasso. E non mi dite: «Ma in chiesa non ci veniva...». Sono proprio quelli che hanno dimenticato Dio per tanto tempo che hanno bisogno di ritrovarlo vicino alle soglie dell'eternità. E che morti belle non fanno certe creature lontane! Come hanno accolto il sacerdote, come hanno accolto il viatico e come stringevano la mano al sacerdote che li benediceva! È l'unica certezza, l'unica cosa ferma, questa mano di morente che prende la mano di colui che ci garantisce che di là c'è qualcuno che ci aspetta! C'è una misericordia che ci fa dimenticare tutte le colpe e nella quale un giorno ci ritroveremo con tutti coloro che siamo costretti per un momento a lasciare. Aiutare a morire! «L'ho visto morire bene! Come ha ricevuto bene il Signore! Come ha baciato il crocifisso!». Allora si capisce cosa vuol dire mani congiunte, mani legate dal rosario, mani che stringono il crocifisso, questo simbolo di sofferenza, di agonia, di sacrificio, ma anche di speranza! Volete bene ai vostri cari? Io non ne dubito: voi li amate. E allora sentite: «Quando non possiamo dar loro più nulla, quando non possono più ricevere né alimento, né consolazioni umane dalle nostre povere parole: che, come vi ho detto, suonano false, nonostante tutta la pietà che noi cerchiamo di racchiudere in esse, quando non possiamo più dar niente, abbiamo ancora la cosa più grande da dare: la speranza». Io voglio anche immaginare per un momento che voi non crediate, io voglio anche pensare che nella vostra anima ci siano dei dubbi: «Ma ci sarà poi davvero qualcuno di là? C'è un'altra vita di là?». Ebbene, se io a una persona cara morente potessi dare qualcosa anche di quello che non ho, io gliela darei, anche se dentro di me non sono in grado di afferrarla con tutta la consapevolezza. Qualche volta - e finisco, perché questo discorso non può non farvi soffrire, come fa soffrire me - io penso a certe frasi: «Ah, io son tranquillo, perché ho fatto tutto». Ho fatto tutto! Proviamo un po' a vedere che cosa avete fatto: avete fatto un consulto, l'avete portato di qua e di là, l'avete fatto vedere a una celebrità medica, avete tentato tutte le medicine. Siete consolati, avete fatto tutto. Qualche volta, se il dolore non mi trattenesse e non mi rendesse timido, avrei voglia di prendere la mano di colui che con tanta tranquillità - anche le donne ragionano a questa maniera - mi dice che ha fatto tutto e vorrei dirgli: «Guarda, aveva bisogno di speranza e l'hai chiusa fuori, aveva bisogno di consolazione e non gliel'hai data, aveva bisogno di Cristo e hai detto: "No, non c'è posto"». Abbiamo fatto tutto! Non potete, o miei cari fratelli, tranquillizzarvi in questa illusione. Tutto avete fatto, quello che non serve, quello che non conta! E qualche volta l'avete fatto anche frettolosamente e impazientemente, perché i malati finiscono per pesare. Ma non avete fatto quello che serve per l'eternità. Capisco come non si possano ricordare serenamente i nostri morti, quando non siamo stati capaci di prepararli a ben morire. Quando diciamo l'Ave Maria, che raccoglie tutta la pietà e la tenerezza verso la madre del cielo, non le diciamo: «Adesso e nell'ora della nostra morte»? Ci sono, o miei cari fratelli, delle colpe. Abbiamo mancato molto verso i nostri parenti, quando erano in vita, ma se, quando verrà l'ora estrema, potremo mettere nel loro cuore questo lievito di speranza e di disposizione verso l'eternità, essi ci benediranno. Da loro abbiamo ricevuto la vita: restituire la vita eterna vuol dire confermare un vincolo. Allora troveremo che in ogni morte, anche la più dura a portare, c'è la presenza del Cristo, che prende figura nello strazio di un povero volto, baciandolo. Dopo che l'avete preparato a morire, sentirete di baciare il volto del Signore.

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