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Economia della grazia - L'Osservatore Romano

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-05/quo-113/economia-della-grazia.html


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Riflessione sul segno eucaristico

Economia della grazia 

16 maggio 2023

Il segno eucaristico non rinvia in prima istanza alla croce ma all’economia della grazia: «La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Giovanni, 1, 17). In effetti durante le settimane di Pasqua la liturgia propone, sia nel ciclo festivo che feriale, passi del quarto Vangelo in cui il segno eucaristico non è introdotto nella cena di addio ma dopo la moltiplicazione dei pani, attraverso il tema del pane disceso dal cielo. È associato alla manna: «Non è Mosé [...], ma è il Padre mio che vi dà il pane del cielo, quello vero» (Giovanni, 6, 32). È collegato all’economia della grazia, a quello status originario, sempre in atto, dal quale l’umanità è fuoriuscita non tanto a causa del peccato ma del nascondimento che segue al peccato e che produce separazione.

«Dove sei? Mi sono nascosto». Nascondersi da Dio non è possibile. Ma nascondersi a se stessi separa da se stessi e da Dio, separa dalla verità, porta verso una deriva di oscurità sempre più fitta. Gesù vede nella verità, vede nel buio fino in fondo, fino alla soglia più profonda del dolore che è l’assenza di Dio. «Padre, perché mi hai abbandonato!». Gesù penetra nell’abisso del cuore umano, non rifiuta niente. Assumendo quello che l’umanità non può patire, spalanca canali di grazia. Il segno eucaristico in Giovanni acquisisce una valenza dilatata che apre alla sovrabbondanza, come testimonia il segno della moltiplicazione dei pani: «Dopo aver reso grazie» (Giovanni, 6, 11). Il pane disceso dal cielo è il verbo incarnato che, pur entrando nell’umano, non perde la sua natura divina e pertanto riversa nell’umanità stanca e inaridita, sottoposta al giogo della forza, la vitalità sorgiva dell’atto creativo, la leggerezza della grazia. Verbo incarnato è l’espressione forte attraverso cui l’evangelista Giovanni sintetizza la straordinaria novità dell’annuncio: l’infinita potenzialità della parola creatrice, del verbo, è accolta in pienezza in un essere umano.

«In principio era il verbo» rinvia all’inizio della Genesi, all’opera creatrice. Si potrebbe declinare anche come: nel Padre era il Figlio. Evidente allusione alla Trinità, al movimento relazionale intrinseco a Dio. Se il Padre rimane misterioso e insondabile, il Figlio viene alla luce, è l’essere umano stesso, «Adamo, figlio di Dio» (Luca, 3, 38), che però solo nella piena maturità assume la potenzialità creatrice del Padre. Il Figlio nell’eterno è sempre nella pienezza, ma nel tempo lo diviene lentamente. Il verbo incarnato costituisce il punto di arrivo di un lungo processo di evoluzione che si realizza attraverso la relazione con Dio. Questo il senso stesso dell’attesa messianica. Il pane disceso dal cielo è la divina umanità di Gesù, è l’essere del Figlio mandato nel tempo. L’evangelista insiste particolarmente sul termine “mandato” che porta in sé la valenza semantica di inviato, angelo, e che nella Bibbia ha sempre connotati umani. Il Figlio è sempre mandato, ma solo dopo un lungo avvento trova le giuste condizioni per incarnarsi, trova l’innocenza originaria, lo stato di grazia.

L’economia della grazia richiede lo stato di grazia, per questo Maria è la porta che riapre il muro del nascondimento, della difesa, della morte. Implica la purità di cuore di chi completamente si affida. Richiede la fede. «Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna: e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Giovanni, 6, 40). Il Padre non vuole la morte del Figlio sulla croce, vuole che l’amore trionfi sulla terra, ma poiché dominano violenza, ingiustizia, odio, l’amore divino penetra assumendo in sé il dolore, patendo quanto l’umanità non è in grado di patire. La morte di Gesù sulla croce non ha il significato di risarcire Dio, è atto d’amore puro: «Io do la mia vita [...], nessuno me la toglie: io la do da me stesso» (Giovanni, 10, 17-18). E poiché chi vede il Figlio, vede il Padre, vuol dire che il Padre stesso porta in sé questo abisso di dolore, che l’amore puro cerca il non amore, desidera andare a colmare l’assenza di amore. La fede libera dalla difesa, dallo stato di nascondimento, permette di partecipare della grazia, di ricevere il perdono, il dono che non viene mai meno, il dono della vita che è vita eterna. L’excursus rintracciabile in Giovanni dilata talmente il significato eucaristico da farlo combaciare con la fede stessa. Più c’è affidamento, più si partecipa della grazia, più si incarna il segno eucaristico. Gesù si affida completamente al Padre, partecipa della grazia, si dona senza forzatura, per adesione totale all’amore puro, senza più scarti. L’amore desidera solo colmare ogni vuoto, entrare dove è assenza d’amore. Non forza, lascia che il tempo maturi le condizioni. Patisce, sta nella passione di quello che passa, non si ritrae.

Il segno eucaristico nel quarto Vangelo pervade interamente la vita pubblica di Gesù fin dall’inizio, quando il Battista lo riconosce: «Ecco l’Agnello di Dio, colui che assume il peccato del mondo» (Giovanni, 1, 29), chiara allusione alla Pasqua dei giudei, in cui però il rito è superato dalla vita, il memoriale attualizzato. Come già evidenziato, si definisce nell’immagine del pane disceso dal cielo che è Gesù stesso. Mangiare la sua carne, bere il suo sangue, significa radicarsi profondamente nella sua umanità, custode dell’essenza divina, dell’amore puro. Il probabile termine ebraico, bassar, carne, riguarda l’essere vivente nel suo insieme. Nell’ultima Pasqua poi, durante la cena d’addio, nei capitoli 13-17 riporta il discorso di commiato di Gesù attraverso cui rende partecipi misticamente i discepoli della comunione d’amore che lo unisce al Padre, che lo unisce a loro. Il segno eucaristico si dilata all’infinito rivelando che la grazia si effonde dalla corrente dell’amore trinitario che genera amore. Dove cade la resistenza, dove non c’è più difesa, ma totale fiducia, l’amore gratuito genera e si effonde. Il segno eucaristico rivela la sua vittoria sulla morte proprio attraverso questa infinita potenza generativa. Il culmine dello svelamento che avviene sulla croce — «li amò fino alla fine» (Giovanni, 13, 1) — porta pienamente alla luce l’insondabilità della misericordia, di quell’amore che si fa presente proprio dove è assenza di amore.

di Antonella Lumini