71. La lingua di Caino e la lingua di abele ♦

71. La lingua di Caino e la lingua di abele ♦ (2 novembre 1957) 

  Il cattivo tempo sta disturbando il nostro secondo incontro coi nostri morti. Ma questa sera, in chiesa, non piove e i nostri morti saranno ben contenti di ritrovarci là, più tranquilli e anche più comodi, perché, in fondo, la chiesa riposa sempre e riposa più del cimitero.21 Vi dirò soltanto una breve parola in continuazione del discorso che abbiamo avviato ieri qui, sul cimitero. Abbiamo parlato di un altro mondo e abbiamo incominciato a considerare un pochino il nostro cimitero come una frontiera che ci porta di là. E bisogna passare questa frontiera! E abbiamo visto alcune condizioni, che sono poi le condizioni che gli uomini mettono, quando si passa da un paese a un altro paese, da un popolo a un altro popolo, da un mondo a un altro mondo. Ieri abbiamo parlato di una moneta che solo vale in quell'altro mondo, in cui noi cristiani crediamo siano giunti i nostri poveri morti e dove pensiamo che la misericordia di Dio ci porti quando chiuderemo la nostra giornata. E quella moneta, che viene cambiata dalla misericordia di Dio, voi la ricordate: è una sola, la bontà. Ma una bontà non distaccata dalla nostra povera vita, una bontà che si è attaccata alla nostra fatica quotidiana, alla nostra povertà, al nostro fedele dovere portato come lo può portare una povera creatura di quaggiù. E, allora, vi dicevo che il Signore misericordioso, con la sua mano forata, segna una croce, che diventa la «validità» di questo piccolo sforzo che ci prepara a potere entrare nell'altro mondo. Ma c'è un'altra condizione, o miei cari fratelli, su cui brevemente voglio richiamare la vostra attenzione, benché siate in disagio: ed è che, in quell'altro mondo, si parla anche una lingua diversa, e bisogna apprenderla, questa lingua! Voi mi domanderete che lingua si parla nell'altro mondo. Sentite, due sono i linguaggi. Dicono che sono tante le lingue degli uomini e basta che qualche volta ci spostiamo di pochi chilometri perché non riusciamo più a capire la 
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21 Alla sera, secondo la tradizione bozzolese, Mazzolari avrebbe tenuto nella chiesa di San Pietro la messa di suffragio in memoria dei morti. 
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 lingua del paese dove noi arriviamo. Ma di là c'è soltanto una lingua che tiene, o miei cari fratelli, in contrapposto alla lingua di qua. Due uomini, i due primi fratelli. Sapete come si chiamavano: Abele e Caino. Uno parlava un linguaggio, l'altro parlava un altro linguaggio; c'è il linguaggio di Abele e c'è il linguaggio di Caino. Ora, vedete, gli uomini parlano due linguaggi: non importa se uno parla l'inglese e l'altro parla francese, se l'altro parla russo, se l'altro parla italiano o cinese o indiano. Queste sono tutte delle cose di poco conto. Il linguaggio degli uomini si divide soltanto in due lingue: ci sono quelli che parlano la lingua di Abele e ci sono quelli che parlano la lingua di Caino. Ebbene, miei cari fratelli, quaggiù, purtroppo, molti di noi abbiamo imparato a parlare la lingua di Caino, che è lingua di odio, che è lingua d'insincerità, che è lingua di malevolenza, che è lingua che porta via l'onore, che porta via il buon nome, che porta via la tranquillità delle famiglie; la lingua che fa tanto male, perché si è dimenticata di questa fratellanza completa che ci lega e ci assomiglia, senza che noi lo vogliamo, un pochino a Caino. Cos'è la lingua di Abele? È il fratello che vuol bene, è il fratello che parla da fratello, che compatisce da fratello, che si avvicina da fratello, che non fa mai la voce grossa, che non grida mai, che non fa mai il prepotente, che non fa sentire il suo peso, che non minaccia mai, che non ha una parola di vendetta e una parola di odio. Questo, vedete, o miei cari fratelli, è il linguaggio di Abele. Orbene, nell'altro mondo, qual è il linguaggio che si parla? Non si parla il linguaggio di Caino. Abbiamo perduto tanto tempo, o miei cari fratelli, a imparare questa brutta lingua, che non serve per l'eternità e, lasciatemi dire, non serve neanche per quaggiù, perché, quando noi parliamo da Caino al fratello, voi lo sapete bene che tristezza si fa quaggiù. Quanta sofferenza è stata creata da questa maniera di parlare, da questo linguaggio che porta il triste nome di Caino! Però, vedete, anche quaggiù qualcheduno ci ha insegnato il linguaggio di Abele, anche se non lo abbiamo imparato poco bene. Il Vangelo che cos'è? Il Vangelo è la grammatica che c'insegna il parlare di Abele. Il cristianesimo che cos'è? È il libro che, aperto, ci insegna a parlare da fratello a fratello, cioè non da Caino ad Abele, perché anche Caino è un fratello, che però s'è dimenticato che Abele è il suo fratello, ma che ci insegna a parlare da Abele a Caino. Purtroppo, passiamo la nostra vita dimenticando questa lingua e, quando ci troveremo sulla soglia dell'eternità, quando varcheremo la frontiera dell'altro mondo, bisognerà, o miei cari fratelli, che il profeta ci purifichi le labbra e la lingua da questo linguaggio che abbiamo appreso quaggiù, perché proprio quest'immagine, che, forse, voi non capite bene, è tolta da un'invocazione che il sacerdote fa prima di leggere il Vangelo: bacia l'altare e domanda a Dio che gli purifichi, come ha fatto al profeta, le sue labbra e la sua lingua, perché siano degne di potere ripetere le parole che il Signore ci ha insegnato.22 Ebbene, miei cari fratelli, la lingua dell'altro mondo, quella lingua che dobbiamo incominciare a imparare da quaggiù, se vogliamo arrivare nella condizione di potere intendere quel mondo e di poter essere ammessi a quel mondo, è proprio la lingua di Abele, che è la lingua della pazienza, che è la lingua della sopportazione, che è la lingua che addolcisce, che è la lingua che non grida, che è la lingua che non calunnia, che è la lingua che dice la verità, che è la lingua che sa anche dire le parole confortevoli nelle ore dolorose a chiunque, anche al fratello che ci ha fatto del male. È la lingua che sa trovare la parola di perdono in qualsiasi momento della vita. Miei cari fratelli, io vorrei che domandassimo ai nostri morti come si apprende questa lingua, chi ce lo insegna questo linguaggio di Abele, che è la lingua del paradiso, di quell'altro mondo a cui bisogna, o miei cari fratelli, che ci prepariamo, se vogliamo veramente diventare i cittadini di quel Regno, che ci ritroverà un pochino meno dispersi e un pochino più uniti e soprattutto un pochino più fratelli. Domandatelo ai vostri morti che lingua parlano di là. Provate. Non bestemmiano più di là, non imprecano più di là, non minacciano più di là, non ci sono più propositi vendicativi, non c'è più nessuno che parli il linguaggio del dolo e della menzogna. Domandiamo ai nostri morti, e non faremo fatica, o miei cari fratelli, ad apprendere questo linguaggio, perché, dopo averla domandata ai nostri morti la chiave di questa grammatica nuova, che il Signore ha portato in questa terra e che noi forse non abbiamo neppure aperta, noi che andiamo a scuola a imparare tante cose che servono per un breve momento, io credo, che, dopo che i morti ci hanno insegnato qual è la lingua di là, non faremo fatica. E, se questa sera tornerete alla messa dei morti nella nostra chiesa, sentirete come è il linguaggio che si parla in paradiso: è il linguaggio di ogni nostra preghiera, che è una preghiera di invocazione, di misericordia e di bontà, è il linguaggio di coloro che si vogliono bene, perché in paradiso finiremo per volerci male e ci vorremo bene per sempre. 
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22 Prima di leggere il Vangelo, il presbitero, dal centro dell'altare, recitava a mani giunte: «Monda-mi il cuore e le labbra, o Dio onnipotente, che mon-dasti le labbra del profeta Isaia; così nella tua benevola misericordia purifica me, affinché possa degnamente annunziare il tuo santo Vangelo»,'invocazione era ispirata a Is 6,4-6.

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