Atto di fede

Atto di fede

Feed your fears and your faith will starve
Feed your faith and your fears will

Max Lucado

Alimenta le tue paure e la tua fede soffrirà
Alimenta la tua fede e le tue paure soffriranno


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Petr Pokorný, From the Gospel to the Gospels: History,

Petr Pokorný, From the Gospel to the Gospels: History, Theology and Impact of the Biblical Term ‘EUANGELION’. Beihefte zur Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft 195. Berlin/Boston: Walter de Gruyter, 2013. X + 237 pp. 79,95 €/$112.00. https://wheatonblog.wordpress.com/2014/01/23/review-of-petr-pokornys-from-the-gospel-to-the-gospels/

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受肉

“We don’t want God to come in deep, we want to visit with God. But God doesn’t want to visit—he wants to move in.” Christine Caine

72. L'unica speranza

72. L'unica speranza (2 novembre 1957) 

 Ieri sera abbiamo domandato perdono al Signore per non aver saputo preparare bene i nostri cari per la vita: ci siamo preoccupati di tante cose, ma ci siamo dimenticati della cosa più necessaria. Lo ha detto il Signore a una donna che aveva di questi affanni e che fino a un certo punto possono essere anche lodevoli: «Marta, tu ti affanni per troppe cose: una sola è necessaria».23 Io credo che nessuno di noi, ieri sera, abbia potuto sottrarsi a un senso di pena e di rimorso per quello che non abbiamo saputo dare ai nostri morti, in ordine alla vita eterna. Questa vita, anche quando è lunga, è sempre così breve! Quello che conta non è lo star bene quaggiù, ma è il vivere quaggiù in modo da non pregiudicare la vita eterna. Questa sera vorrei dirvi una parola ancor più vicina alla nostra responsabilità verso la vita eterna, come, cioè, dobbiamo disporre il nostro cuore e il cuore delle persone a cui vogliamo bene all'incontro con la morte. Quando non siamo riusciti ad aiutare i nostri cari a ben vivere, possiamo almeno riparare aiutando a ben morire. Sono parole che non si dicono volentieri: non si vorrebbe mai che venisse, per chi amiamo, la giornata della morte. Ci lamentiamo qualche volta del mistero che avvolge la morte, ma chi di noi avrebbe il coraggio di avere davanti agli occhi e al cuore l'ora della morte di una persona cara? Non rifiutiamo forse il giudizio dei medici anche quando questo giudizio è inesorabilmente certo? È il nostro cuore che si rifiuta di vedere morire una persona cara. Eppure, vedete, siamo tutti dei morituri e nessuno di noi sa se quest'ora è lontana o vicina. Fra tutte le morti, però, quelle improvvise sono le più brutte. Non augura-tevela e non auguratela a nessuno cui volete bene. Vediamo, sì, soffrire i nostri cari, ma abbiamo almeno la possibilità di ascoltare una parola, di raccogliere uno sguardo di cui abbiamo bisogno per alimentare la nostra povera vita. Le ultime parole dei nostri cari rappresentano una grande forza e un grande viatico per tutti, anche per coloro che, per camminare più spediti, credono di poterle dimenticare. La malattia è una cosa dolorosissima e la si vorrebbe qualche volta vedere abbreviata, perché le sofferenze dei nostri cari fanno san- 
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23* Cf. Le 10,41-42.
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guinare il cuore. Ma, d'altra parte, essa è come una specie di introduzione alla vita eterna: è un po' come il portarli, come l'avvicinarli all'eternità. Chi non ha visto morire qualcuno di casa sua, chi, in questa sera dei morti, non ha portato nella nostra chiesa l'immagine, il gemito, le ultime parole di una cara creatura? L'abbiamo vista scendere verso il tramonto, incapaci di impedire la morte. Questa è la nostra impotenza, miei cari fratelli: non sappiamo fermare la morte delle persone più care. La vediamo venire avanti la morte e non sappiamo impedirla, non possiamo chiudere la porta, siamo impotenti. Non sappiamo neanche cosa dire, sono così povere certe consolazioni! Non avete mai misurato, vicino al letto di un morente, la vanità di certe espressioni? Come suonano vuote certe parole di speranza, certe parole di inganno! L'ammalato guarda e non ci crede, scruta il nostro volto e non si illude. Egli ha il senso della morte ed è più vicino alla verità. Gli ammalati non si possono ingannare. Qualcuno ha paura di nominare Dio in certi momenti, crede di turbare la tranquillità del trapasso e chiude, invece, la porta alla speranza, al conforto, alla consolazione. Non ce n'è altra nel cuore dei nostri morenti: l'unica speranza e l'unica consolazione viene dalla religione, dalla nostra religione. L'unica speranza è nel Cristo che perdona, che diventa viatico, che sorregge la nostra debolezza nel viaggio verso l'eternità. Se voi avete scoperto un'altra maniera di consolare chi muore, di far sperare chi muore, ditemelo. L'unica maniera che avete scoperto è quella di illuderlo, di fargli credere che non morrà: e ha già la morte nel tremito della mano e voi vedete nei suoi occhi il segnale vicino! Ingannare i morenti! «Ma noi - dite - lo facciamo per pietà». Ricordatevi, o miei cari fratelli, che ci sono delle pietà criminali. Peso la parola nel dirvelo e la confermo. I morenti non sopportano l'inganno. E, poi, credete voi, o miei cari fratelli, che la presenza di un sacerdote possa turbare la tranquillità di un trapasso? Siete voi che lo immaginate, sono quei falsi familiari che chiudono le porte alla speranza, la chiudete a un povero uomo, togliendogli l'unica maniera di guardare la morte senza averne il terrore, l'unica consolazione che apre le anime alla confidenza nella misericordia di Dio. Ci sono delle morti che veramente danno il senso della raccolta intorno al letto: pregavano tutti e c'erano dei figlioli che avevano trovato una parola, che neanche il sacerdote era riuscito a trovare. Ho visto delle mamme discoprire la porta dell'eterno al proprio figliolo, il quale, fissando in volto la mamma, capiva che cosa vuol dire una morte di fede: c'è qualcuno di là, c'è un'altra mamma di là, c'è un altro papà di là, c'è qualcuno che gli vuole bene. Noi rimaniamo di qua con le nostre menzogne, il morto va al cimitero; e noi torniamo ai nostri affari, alle nostre distrazioni e i morti rimangono là, distaccati, perché, quando non c'è un raccordo con la vita eterna, quando non c'è questo legame, non vale la pena che noi ricordiamo i nostri morti. Mi sono domandato spesso: «Se uno non crede, perché va al cimitero? Che cosa va a vedere, che cosa va a trovare, cosa dice a questi poveri morti?». Ditemelo voi. Ma non sentite che in questo momento, nella nostra chiesa, i nostri morti, che ci sono così vicini, sono diventati anche la ragione della nostra consolazione e della nostra speranza? Qualche volta, negli annunci, si dice parlando di un figliolo: «È andato a trovare la sua mamma». E parlando di uno sposo: «È andato a trovare la sua sposa»; e parlando di una mamma: «Ha raggiunto di là il figliolo morto in Russia o in Africa». Vedete quale serenità e quale certezza di speranza e di vita dà la religione! Vi dico questo perché qualche volta ho l'impressione che ci sia una barriera di falsa pietà, di poco rispetto all'eterno, che c'è in ognuna delle anime che stanno preparandosi al trapasso. E non mi dite: «Ma in chiesa non ci veniva...». Sono proprio quelli che hanno dimenticato Dio per tanto tempo che hanno bisogno di ritrovarlo vicino alle soglie dell'eternità. E che morti belle non fanno certe creature lontane! Come hanno accolto il sacerdote, come hanno accolto il viatico e come stringevano la mano al sacerdote che li benediceva! È l'unica certezza, l'unica cosa ferma, questa mano di morente che prende la mano di colui che ci garantisce che di là c'è qualcuno che ci aspetta! C'è una misericordia che ci fa dimenticare tutte le colpe e nella quale un giorno ci ritroveremo con tutti coloro che siamo costretti per un momento a lasciare. Aiutare a morire! «L'ho visto morire bene! Come ha ricevuto bene il Signore! Come ha baciato il crocifisso!». Allora si capisce cosa vuol dire mani congiunte, mani legate dal rosario, mani che stringono il crocifisso, questo simbolo di sofferenza, di agonia, di sacrificio, ma anche di speranza! Volete bene ai vostri cari? Io non ne dubito: voi li amate. E allora sentite: «Quando non possiamo dar loro più nulla, quando non possono più ricevere né alimento, né consolazioni umane dalle nostre povere parole: che, come vi ho detto, suonano false, nonostante tutta la pietà che noi cerchiamo di racchiudere in esse, quando non possiamo più dar niente, abbiamo ancora la cosa più grande da dare: la speranza». Io voglio anche immaginare per un momento che voi non crediate, io voglio anche pensare che nella vostra anima ci siano dei dubbi: «Ma ci sarà poi davvero qualcuno di là? C'è un'altra vita di là?». Ebbene, se io a una persona cara morente potessi dare qualcosa anche di quello che non ho, io gliela darei, anche se dentro di me non sono in grado di afferrarla con tutta la consapevolezza. Qualche volta - e finisco, perché questo discorso non può non farvi soffrire, come fa soffrire me - io penso a certe frasi: «Ah, io son tranquillo, perché ho fatto tutto». Ho fatto tutto! Proviamo un po' a vedere che cosa avete fatto: avete fatto un consulto, l'avete portato di qua e di là, l'avete fatto vedere a una celebrità medica, avete tentato tutte le medicine. Siete consolati, avete fatto tutto. Qualche volta, se il dolore non mi trattenesse e non mi rendesse timido, avrei voglia di prendere la mano di colui che con tanta tranquillità - anche le donne ragionano a questa maniera - mi dice che ha fatto tutto e vorrei dirgli: «Guarda, aveva bisogno di speranza e l'hai chiusa fuori, aveva bisogno di consolazione e non gliel'hai data, aveva bisogno di Cristo e hai detto: "No, non c'è posto"». Abbiamo fatto tutto! Non potete, o miei cari fratelli, tranquillizzarvi in questa illusione. Tutto avete fatto, quello che non serve, quello che non conta! E qualche volta l'avete fatto anche frettolosamente e impazientemente, perché i malati finiscono per pesare. Ma non avete fatto quello che serve per l'eternità. Capisco come non si possano ricordare serenamente i nostri morti, quando non siamo stati capaci di prepararli a ben morire. Quando diciamo l'Ave Maria, che raccoglie tutta la pietà e la tenerezza verso la madre del cielo, non le diciamo: «Adesso e nell'ora della nostra morte»? Ci sono, o miei cari fratelli, delle colpe. Abbiamo mancato molto verso i nostri parenti, quando erano in vita, ma se, quando verrà l'ora estrema, potremo mettere nel loro cuore questo lievito di speranza e di disposizione verso l'eternità, essi ci benediranno. Da loro abbiamo ricevuto la vita: restituire la vita eterna vuol dire confermare un vincolo. Allora troveremo che in ogni morte, anche la più dura a portare, c'è la presenza del Cristo, che prende figura nello strazio di un povero volto, baciandolo. Dopo che l'avete preparato a morire, sentirete di baciare il volto del Signore.

71. La lingua di Caino e la lingua di abele ♦

71. La lingua di Caino e la lingua di abele ♦ (2 novembre 1957) 

  Il cattivo tempo sta disturbando il nostro secondo incontro coi nostri morti. Ma questa sera, in chiesa, non piove e i nostri morti saranno ben contenti di ritrovarci là, più tranquilli e anche più comodi, perché, in fondo, la chiesa riposa sempre e riposa più del cimitero.21 Vi dirò soltanto una breve parola in continuazione del discorso che abbiamo avviato ieri qui, sul cimitero. Abbiamo parlato di un altro mondo e abbiamo incominciato a considerare un pochino il nostro cimitero come una frontiera che ci porta di là. E bisogna passare questa frontiera! E abbiamo visto alcune condizioni, che sono poi le condizioni che gli uomini mettono, quando si passa da un paese a un altro paese, da un popolo a un altro popolo, da un mondo a un altro mondo. Ieri abbiamo parlato di una moneta che solo vale in quell'altro mondo, in cui noi cristiani crediamo siano giunti i nostri poveri morti e dove pensiamo che la misericordia di Dio ci porti quando chiuderemo la nostra giornata. E quella moneta, che viene cambiata dalla misericordia di Dio, voi la ricordate: è una sola, la bontà. Ma una bontà non distaccata dalla nostra povera vita, una bontà che si è attaccata alla nostra fatica quotidiana, alla nostra povertà, al nostro fedele dovere portato come lo può portare una povera creatura di quaggiù. E, allora, vi dicevo che il Signore misericordioso, con la sua mano forata, segna una croce, che diventa la «validità» di questo piccolo sforzo che ci prepara a potere entrare nell'altro mondo. Ma c'è un'altra condizione, o miei cari fratelli, su cui brevemente voglio richiamare la vostra attenzione, benché siate in disagio: ed è che, in quell'altro mondo, si parla anche una lingua diversa, e bisogna apprenderla, questa lingua! Voi mi domanderete che lingua si parla nell'altro mondo. Sentite, due sono i linguaggi. Dicono che sono tante le lingue degli uomini e basta che qualche volta ci spostiamo di pochi chilometri perché non riusciamo più a capire la 
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21 Alla sera, secondo la tradizione bozzolese, Mazzolari avrebbe tenuto nella chiesa di San Pietro la messa di suffragio in memoria dei morti. 
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 lingua del paese dove noi arriviamo. Ma di là c'è soltanto una lingua che tiene, o miei cari fratelli, in contrapposto alla lingua di qua. Due uomini, i due primi fratelli. Sapete come si chiamavano: Abele e Caino. Uno parlava un linguaggio, l'altro parlava un altro linguaggio; c'è il linguaggio di Abele e c'è il linguaggio di Caino. Ora, vedete, gli uomini parlano due linguaggi: non importa se uno parla l'inglese e l'altro parla francese, se l'altro parla russo, se l'altro parla italiano o cinese o indiano. Queste sono tutte delle cose di poco conto. Il linguaggio degli uomini si divide soltanto in due lingue: ci sono quelli che parlano la lingua di Abele e ci sono quelli che parlano la lingua di Caino. Ebbene, miei cari fratelli, quaggiù, purtroppo, molti di noi abbiamo imparato a parlare la lingua di Caino, che è lingua di odio, che è lingua d'insincerità, che è lingua di malevolenza, che è lingua che porta via l'onore, che porta via il buon nome, che porta via la tranquillità delle famiglie; la lingua che fa tanto male, perché si è dimenticata di questa fratellanza completa che ci lega e ci assomiglia, senza che noi lo vogliamo, un pochino a Caino. Cos'è la lingua di Abele? È il fratello che vuol bene, è il fratello che parla da fratello, che compatisce da fratello, che si avvicina da fratello, che non fa mai la voce grossa, che non grida mai, che non fa mai il prepotente, che non fa sentire il suo peso, che non minaccia mai, che non ha una parola di vendetta e una parola di odio. Questo, vedete, o miei cari fratelli, è il linguaggio di Abele. Orbene, nell'altro mondo, qual è il linguaggio che si parla? Non si parla il linguaggio di Caino. Abbiamo perduto tanto tempo, o miei cari fratelli, a imparare questa brutta lingua, che non serve per l'eternità e, lasciatemi dire, non serve neanche per quaggiù, perché, quando noi parliamo da Caino al fratello, voi lo sapete bene che tristezza si fa quaggiù. Quanta sofferenza è stata creata da questa maniera di parlare, da questo linguaggio che porta il triste nome di Caino! Però, vedete, anche quaggiù qualcheduno ci ha insegnato il linguaggio di Abele, anche se non lo abbiamo imparato poco bene. Il Vangelo che cos'è? Il Vangelo è la grammatica che c'insegna il parlare di Abele. Il cristianesimo che cos'è? È il libro che, aperto, ci insegna a parlare da fratello a fratello, cioè non da Caino ad Abele, perché anche Caino è un fratello, che però s'è dimenticato che Abele è il suo fratello, ma che ci insegna a parlare da Abele a Caino. Purtroppo, passiamo la nostra vita dimenticando questa lingua e, quando ci troveremo sulla soglia dell'eternità, quando varcheremo la frontiera dell'altro mondo, bisognerà, o miei cari fratelli, che il profeta ci purifichi le labbra e la lingua da questo linguaggio che abbiamo appreso quaggiù, perché proprio quest'immagine, che, forse, voi non capite bene, è tolta da un'invocazione che il sacerdote fa prima di leggere il Vangelo: bacia l'altare e domanda a Dio che gli purifichi, come ha fatto al profeta, le sue labbra e la sua lingua, perché siano degne di potere ripetere le parole che il Signore ci ha insegnato.22 Ebbene, miei cari fratelli, la lingua dell'altro mondo, quella lingua che dobbiamo incominciare a imparare da quaggiù, se vogliamo arrivare nella condizione di potere intendere quel mondo e di poter essere ammessi a quel mondo, è proprio la lingua di Abele, che è la lingua della pazienza, che è la lingua della sopportazione, che è la lingua che addolcisce, che è la lingua che non grida, che è la lingua che non calunnia, che è la lingua che dice la verità, che è la lingua che sa anche dire le parole confortevoli nelle ore dolorose a chiunque, anche al fratello che ci ha fatto del male. È la lingua che sa trovare la parola di perdono in qualsiasi momento della vita. Miei cari fratelli, io vorrei che domandassimo ai nostri morti come si apprende questa lingua, chi ce lo insegna questo linguaggio di Abele, che è la lingua del paradiso, di quell'altro mondo a cui bisogna, o miei cari fratelli, che ci prepariamo, se vogliamo veramente diventare i cittadini di quel Regno, che ci ritroverà un pochino meno dispersi e un pochino più uniti e soprattutto un pochino più fratelli. Domandatelo ai vostri morti che lingua parlano di là. Provate. Non bestemmiano più di là, non imprecano più di là, non minacciano più di là, non ci sono più propositi vendicativi, non c'è più nessuno che parli il linguaggio del dolo e della menzogna. Domandiamo ai nostri morti, e non faremo fatica, o miei cari fratelli, ad apprendere questo linguaggio, perché, dopo averla domandata ai nostri morti la chiave di questa grammatica nuova, che il Signore ha portato in questa terra e che noi forse non abbiamo neppure aperta, noi che andiamo a scuola a imparare tante cose che servono per un breve momento, io credo, che, dopo che i morti ci hanno insegnato qual è la lingua di là, non faremo fatica. E, se questa sera tornerete alla messa dei morti nella nostra chiesa, sentirete come è il linguaggio che si parla in paradiso: è il linguaggio di ogni nostra preghiera, che è una preghiera di invocazione, di misericordia e di bontà, è il linguaggio di coloro che si vogliono bene, perché in paradiso finiremo per volerci male e ci vorremo bene per sempre. 
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22 Prima di leggere il Vangelo, il presbitero, dal centro dell'altare, recitava a mani giunte: «Monda-mi il cuore e le labbra, o Dio onnipotente, che mon-dasti le labbra del profeta Isaia; così nella tua benevola misericordia purifica me, affinché possa degnamente annunziare il tuo santo Vangelo»,'invocazione era ispirata a Is 6,4-6.

70. La moneta per l'aldilà ♦

70. La moneta per l'aldilà ♦ (1° novembre 1957)17 

 PRIMO MAZZOLARI, Discorsi, EDB, 2006, pp.385ss 

 Miei cari bozzolesi, questa mattina a due giovani, che facevano la loro richiesta di matrimonio, ho chiesto se non erano mai stati all'estero: è una delle tante domande del formulario. Mi hanno risposto di no. Se sono qui nel cimitero, io vorrei dire: «All'estero siamo». Non si chiama l'altro mondo? Quando uno muore, si dice: «È andato all'altro mondo». E, allora, miei cari fratelli, abbiamo varcato una soglia, una frontiera. Sono delle parole che forse non suonano troppo benevolmente al nostro cuore: varcare una frontiera di un mondo che non conosciamo, di un mondo che qualcheduno potrebbe anche chiedersi se veramente c'è. Io non voglio domandarmi, questa sera, miei cari fratelli, se veramente abbiamo varcato, venendo sul cimitero, la frontiera di un altro mondo. Se questo mondo c'è, che cosa rappresenta? Io vi lascio nella vostra incredulità, se ci siete, vi lascio nella vostra incertezza, se ci siete; vi lascio anche nella vostra negatività completa, se ci siete. Ognuno vede come può, ragiona come può, sente come può. Però io gli vorrei chiedere se non ha provato un brivido, entrando in quest'altro mondo, sulla soglia di questo mistero che si chiama la morte. È vero che noi non abbiamo visto niente di quest'altro mondo, è vero che noi non sappiamo niente di quest'altro mondo, se non quello che ci rivela la fede, è vero che possiamo anche dubitarne... e forse qualcheduno di voi ne dubita anche in questo momento. Però veda egli nella sua anima se veramente è tranquillo, se niente ha provato nel cuore, uno di quei brividi che, anche quando non si vogliono sentire, fanno sentire fremere l'anima, perché ricordatevi che la morte non può lasciare indifferente nessuno. Anzi, chi nega l'altro mondo e ha sentito o crede di non aver sentito nessun trapasso, varcando questa frontiera dell'altro mondo, forse fa fatica a rimanere in questo mondo di mistero più di coloro che credono. E, allora, se abbiamo varcato la frontiera di un altro mondo, se siamo arrivati in un'altra patria, se siamo «all'estero», voi lo sapete che alla frontiera bisogna presentare dei passaporti... poi c'è la rivista dei bagagli e poi c'è il cambio della valuta... e tutte le altre pratiche che voi ben sapete. Lasciate, o miei cari fratelli, che io prenda da queste quasi volgari immagini i motivi di una breve riflessione, che forse, appunto perché molto semplice, può anche essere molto utile. Io ricordo che tanti anni fa, proprio da questa soglia, mentre passava il treno, ho paragonato... ho paragonato la morte o il trapasso a un viaggio e ho parlato di un biglietto, uno strano biglietto che non si sa come pagare, uno strano biglietto che nessuno vuole, ma che, a un certo momento, ce lo troviamo in tasca, e all'improvviso e inesorabile; e non c'è nessuno che può dire di no, perché è qui la tragedia, o miei cari fratelli, la tragedia della nostra impotenza di non poter dire di no alla cosa più decisiva della nostra vita. Continuando nell'immagine, io incomincerò a domandarmi: «Mi presento». Siamo arrivati alla frontiera dell'altro mondo. Forse domani guaioleremo nel bagaglio, forse domani o posdomani, perché torniamo qui tre giorni di seguito,18 proveremo anche a vedere i documenti, il passaporto per questo altro mondo che non conosciamo. Lasciate che in questo momento io mi presenti all'ufficio del cambiavalute. La mia moneta di quaggiù, la mia moneta d'Italia, quando vado in Francia, in Germania, in Inghilterra, in America, non vale, bisogna fare il cambio. C'è qualche cosa che non è accettato di là, ci sono delle monete che nessuno vuole di là, anche se sono stimate, perché ricordatevi che le monete hanno sempre un discreto valore, all'infuori dei giorni, dolorosi per tutti, della svalutazione. Ma nel cambio, siccome ci dev'essere una lingua che serve, così ci dev'essere una moneta che vale. E quali sono, qual è la moneta, o miei cari fratelli, che vale? È tutto qui, miei cari, il segreto di questa voce, che misteriosamente, in questo momento, a noi raccolti sul nostro cimitero alla vigilia del giorno dei morti, parìa nel mio animo e parla nel vostro animo. Qual è la moneta? Ecco, c'è una sola cosa che non si compera, miei cari fratelli: la vita eterna. Del resto, ed è quasi banale il ricordarlo, gli uomini credono di comperare tutto: l'onore, la libertà, la coscienza, l'onestà, la rettitudine... e qualche volta anche i posti di responsabilità. C'è una cosa sola che non si può comperare: il giudizio di Dio, o miei cari fratelli. Qualcheduno di voi ha giustamente nell'animo la rivolta per C^ 
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18 Nel 1957, infatti, a differenza degli altri anni nei quali se ne tenevano due,  vi furono tre momenti al cimitero: oltre a quelli del pomeriggio del giorno dei santi e del pomeriggio della memoria dei morti, ci fu anche la «coda» della domenica 3 novembre.  I discorsi tenuti da don Mazzolari che vengono qui riportati di seguito, costituiscono, in tal modo, una trilogia, sull'unico tema della frontiera tra i due mondi, che finiva per sviluppare  una consuetudine piuttosto sentita nella sensibili-tà del parroco di Bozzolo.   Cf., ad esempio, il capi- tolo «2 novembre», in Lettere al mio parroco,  EDB, Bologna 1996 [1* edizione: La Locusta,  Vicenza 1974], 89-91. 
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 questa «comperabilità» di quaggiù, per questo commercio di coscienze e di cose, per cui, ad un certo momento, noi ci domandiamo se il denaro è l'unica chiave del mondo, l'unica potenza del mondo, perché anche attraverso il denaro si fabbricano quegli ordigni che determinano alcune volte spaventosamente sui morti la potenza degli Stati. Vedete, qui non è entrato il denaro. All'altro mondo niente vale di questo denaro che noi abbiamo messo insieme, io non so se bene o male. C'è di più, o miei cari fratelli: non valgono neanche le presentazioni che noi possiamo chiamare onorevoli, anzi, qualche volta più che soddisfacenti. Non c'è nessun titolo che conta: non c'è né un re, né un dittatore, né un sindaco, né un arciprete, né un cavaliere, né un commendatore, né un avvocato, né un ingegnere. Niente, scompaiono tutti. In quell'altro mondo, è inutile far stampare dei biglietti da visita e aggiungervi quelle piccole vanità che pare che rappresentino qualche cosa presso gli uomini e non valgono niente davanti a Dio. Nulla tiene! Queste distinzioni, ad un certo momento, quando si passa la frontiera, la frontiera da questo mondo all'altro mondo, chiamatelo come volete voi, niente tiene e voi sentite che, anche sulle lapidi, quei titoli che vengono qualche volta incisi danno un suono di tristezza immensa. Che cosa importa se uno era intelligente, se uno era arrivato molto in alto. Guardatelo, come è in basso! Guardate che non dice niente! Guardate che non può più niente! Guardate che non comanda più niente! Guardate che non ha più neanche la possibilità di dire: «Ho sete»; ed è la parola che costerebbe così poco a dirla e ci sarebbero tante anime pronte a portargli una goccia d'acqua sulle labbra. Valgono niente tutte queste cose! Incominciamo nell'altro mondo l'eguaglianza completa. E vorrei dire a qualcheduno di quelli i quali credono che la religione sconsacri quello che vi è di fondamentale nell'uomo: «Incomincio a capire che l'unica parola di eguaglianza viene pronunciata da questa religione, che guarda all'altro mondo come al momento in cui incomincia la realtà della vita, non quella fabbricata da noi, non quella fabbricata dalle nostre menzogne, dalle nostre contrattazioni, ma quella fabbricata dalla giustizia di Dio, per cui l'ultimo degli uomini vale come il primo degli uomini e si porta davanti, nella povertà completa di tutto quello che qui abbiamo creduto potesse valere, qualche cosa per l'eternità». Nessun titolo o, meglio, c'è una moneta, anzi, son due le monete che hanno diritto al trapasso. Non è quella italiana, non è quella americana... non è questione di dollari, né di rubli: contano niente, anche se ne siete carichi! Ce n'è una sola che conta: la bontà e la misericordia. E badate che questa mattina, in chiesa, ricordando i nostri santi, abbiamo parlato degli uomini buoni. Quella, vedete, è la moneta che va di là, l'unica moneta che va di là, ma non una moneta distaccata, una moneta che è portata sulle mani: non delle mani che non l'hanno guadagnata, non delle mani che se la son fatta prestare; non delle mani che l'hanno rapita, ma delle mani che l'hanno guadagnata, perché non è la bontà che va di là, è l'uomo buono che va di là, è colui che si è sforzato a mettere nella sua vita, nelle sue azioni, nei suoi sentimenti, nelle sue parole, in tutto quello che è l'espressione del vivere umano, qualche cosa della bontà. Voi capite subito le mani che hanno lavorato. Incide il lavoro, la fatica incide e incide in una maniera fisica, come il dolore incide nel cuore, come i lutti s'incidono nel cuore, tanto è vero che voi, dopo certe disfatte morali, avete i volti che sono il ritratto della sofferenza. Ebbene, che cos'è l'uomo buono? È l'uomo che si presenta alla frontiera, all'altro mondo, al giudizio di Dio con qualunque cosa di guadagnato attraverso la sua fatica quotidiana, attraverso il suo sforzo per essere buono, attraverso la rinuncia a tante cose che potevano rappresentare una soddisfazione, ma erano comperate col sacrificio della propria sofferenza. La bontà, miei cari fratelli, non c'è bisogno che sia molta. Di denari ce ne vogliono tanti, di terre ce ne vogliono tante, perché, a un certo momento, per comperare le piccole gioie della vita, non si sa mai quale quantità di ricchezza ci voglia e non ci sentiamo mai tranquillamente riparati da queste cose che noi acquistiamo. Ma di bontà ce ne vuol poca, o miei cari fratelli. Il Signore si accontenta di una briciola, si accontenta di un pensiero, si accontenta di uno sforzo, s'accontenta di un no detto in un'ora di tentazione a qualche cosa che ci poteva bruciare la coscienza e la vita. Ecco, vedete, la prima moneta che vale, il cambio che non costa! Anzi, vorrei dire che è la moneta più pregiata. Non c'è bisogno di fare degli sconti, perché, a un certo momento, entra quell'altra considerazione di valori, per cui la misericordia di Dio finisce per mettere la sua «unità». Scusatemi, lasciate che vi spieghi la parola. Io sono uno «zero», quando mi presento di là; voi, perdonatemi se facciamo l'eguaglianza, siete altrettanti «zeri», perché, di fronte a quello che il Signore ha preparato, cosa volete mai che sia la nostra povera vita, anche quando è un'espressione di sforzo verso la bontà. Ecco, sono degli «zeri», ma degli «zeri» puliti, degli «zeri» chiari, degli «zeri» pieni di sentimento, degli «zeri» che hanno sospirato verso di là, degli «zeri» pieni di speranza. E, allora, vedete, c'è «uno»... forse non ci avete mai pensato all'ufficio del Salvatore... il suo sangue, quando nel venerdì santo noi lo vediamo colare ai piedi della croce... forse non ci siamo mai domandati a che cosa serve questo prezzo della nostra redenzione. Allora, vedete, davanti all'uomo buono, di questa bontà iniziale, di questa bontà che è una briciola, di questa bontà che è uno «zero», ma è sempre, però, uno sforzo verso qualche cosa che non sia semplicemente roba di terra, roba di denaro, roba da mangiare, roba da godere... basta un sospiro e, vedete, Iddio, con le mani forate del suo Cristo, ci mette davanti «uno». Ecco, io sono uno «zero», io sono due «zeri»; voi siete come me, uno, due «zeri». C'è una mano forata, quella del Cristo, che ha tracciato davan-ti ai miei «zeri», ha tracciato davanti il valore, l'unità: «uno». Ecco, il cambio è avvenuto. Chi c'era, chi c'era lì, all'ufficio di cambio? Non l'avete riconosciuto? Non ci avete mai pensato? Forse vi siete dimenticati d'incontrarlo... Guardate che bisogna tenere delle buone relazioni con quelli che sono al di là della frontiera, all'«ufficio cambio», dove vale soltanto la bontà e la sua misericordia. Si chiama Cristo. E vorrei, o miei cari fratelli, farvi un augurio, farlo a me, farlo ai miei morti, farlo a voi e farlo a tutti i nostri morti: che, quando passeremo la frontiera... e si fa presto a passare la frontiera... l'altra sera ho visto come si fa presto a passare la frontiera... e in questo momento, nel cimitero di Castiglione, quella buona e cara creatura ascolterà questa mia parola,19 perché io sono certo che quel Cristo in cui ella credeva avrà segnato colla sua mano forata e col suo sangue, nella misericordia, che è per lei, che è per me, che è per tutti, per tutti i nostri morti, avrà segnato l'«uno», il segno che dà valore, perché è Cristo, o miei cari fratelli, è da questa croce... Ed è strano: da che non abbiamo più la chiesa,20 qui al cimitero, noi tutti gli anni portiamo la reliquia della croce di Cristo e mi pare che ci stia bene davanti ai nostri «zeri» questa reliquia, che ricorda il sangue del Cristo, che dà un valore alle piccole nostre bontà, che porteremo un giorno - e non tanto lontano, perché la vita è breve per tutti, è breve anche per voi, miei cari, giovani -, le porteremo davanti a questo «ufficio di cambio» dell'eternità, perché il Cristo, riconoscendoci col suo sangue, tracci quell'«uno», che diventa una croce e che rappresenta la certezza di un accoglimento, per cui anche il cielo plumbeo di questa sera finisce per spaccarsi e farci vedere che i nostri morti sono arrivati non soltanto oltre frontiera, ma sono arrivati nella patria. 
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19 Il Mazzolali alludeva a Vittoria Fabrizi de Biani (1887-1957), la quale, mentre si trovava ospite, come capitava spesso, nella sua canonica, morì improvvisamente la sera del 30 ottobre. Il prete cremonese ufficiò il funerale a Bozzolo, prima di accompagnarne la salma al cimitero di Castiglione del Lago, in provincia di Perugia, dove fu sepolta. Nel Diario, ad indicem, è stato inserito il fitto carteggio intrattenuto dal parroco di Bozzolo con la Fabrizi de Biani, che fu anche un'assidua collaboratrice di Adesso. 
20 La cappella che si trovava al centro del porticato di testa era stata, infatti, abbattuta per permettere il passaggio alla sezione nuova del cimitero, che necessitava di un allargamento.